Ogni domenica penso che la comunione che prendo dovrebbe ustionarmi il palato e la lingua da tanto sono lontana dalla grazia di Dio. L'abbandono cieco - gesuitica sottomissione di fede perinde ac cadaver - non l'ho mai avuto e oggi mi appartiene ancora meno. Eppure regolarmente mi ostino ad accostarmi a un sacramento al quale non sono neppure più saldamente sicura di credere. Non riesco a costringermi alla logica coerenza di rinunciare anche all’ultima àncora che mi impedisce di andare del tutto alla deriva, adesso che ogni altro punto fermo è stato escisso con chirurgica esattezza. Così settimanalmente cerco il conforto non di un’abitudine, bensì di un momento di balsamica apertura alla speranza. In mancanza di una fede incrollabile, mi sforzo di avere fiducia e tento di accogliere - magari perfino di mettere all'angolo - il Signore che mi sfugge, che ignora le mie preghiere, che resta in silenzio e sembra cinico o indifferente al mio dolore.
Non so cosa mi aspetto come frutto di tanta perseveranza, di certo non un miracolo. Forse ho solo fame di un’epifania di senso. Non sono pronta a cessare di sperare che ci sia un’entità che sovrintende al destino e che tutte queste sconfitte e tutti questi tormenti non siano casuali, sfortune capitate per semplice probabilità. Voglio illudermi che servano a qualcosa. Ho bisogno di avere fiducia che ogni contrarietà, lacrima e delusione sia essenziale nello sviluppo coerente di una storia, che sia una tappa ineludibile per arrivare alla conclusione fissata. E non pretendo - e nemmeno m’importa - che la meta ultima sia un “e vissero tutti felici e contenti” né un altrove o un aldilà di eterna beatitudine che ricompensi della sofferenza terrena. Mi basterebbe appena poter sapere che non è tutto vano e inosservato o, peggio, privo di significato e accidentale come un qualsiasi lancio di dadi.
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