giovedì, ottobre 26, 2017

Se c'è una cosa della quale mi sono convinta a questo punto, è la necessità di raccontarsi. Finché si è in tempo, bisogna fornire la propria versione, perché - nonostante nessuno possa avere una visione oggettiva e obiettiva di se stesso - non si può lasciare che la propria storia, il proprio spirito, i propri sogni e desideri, i propri difetti e i propri tormenti sopravvivano solo in memorie apocrife. Nessun essere umano potrebbe affermare con assoluta certezza di essere questo o quello. Eppure nulla attribuisce all'occhio esterno una maggiore perspicacia nel tracciare i contorni di un'esistenza, della sua essenza fatta di bagliori sfavillanti e di deludenti miserie. C'è sempre qualcosa che parla di noi stessi nel modo in cui misuriamo e raccontiamo gli altri. Peggio, c'è spesso più di noi stessi che di loro nei nostri giudizi e punti di vista. 

Ciò che è un enigma per l'individuo, come può essere una verità incontrovertibile per l'altro? Tanto più se sotto la lente d'ingrandimento finisce un essere umano particolarmente sfuggente, riservato e restio a svelare se stesso. Con quali criteri si può cucire un abito addosso a chi non ti lascia prendere le misure? Come si può credere che possa calzare a pennello?

Pur ammettendo che la nostra personale versione non sia la migliore possibile, occorre altresì raccontarla, anche solo perché possa essere interpolata nella narrativa altrui. Delle decine (centinaia!) di esseri umani che siamo per gli altri, nessuno di per sé è fedele a noi stessi e, per quanto poco possiamo conoscerci, sappiamo più di quanto riesca a cogliere lo sguardo esterno. Lasciare la nostra verità esclusivamente nelle mani altrui, dunque, è un onore che non possiamo concedere. Per lo meno, non a cuor leggero.

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