domenica, luglio 19, 2020

Insensibile. Così mi definiva. E io a chiedermi per anni come fosse possibile, allora, avere tutte quelle lacrime, da dove venissero, perché a volte sembrasse interminabile il tempo passato prima di poterle contenere. Lacrime da emozioni di retroguardia, vissute sempre ex post, come se in diretta mi fossero precluse. Lacrime silenziose da relegare dietro porte chiuse e consumare in solitudine. In pubblico la vita era un'anestesia perenne e così, di tante cose mi sono accorta fuori tempo massimo, una volta che ho potuto guardarle al sicuro nell'intimità della mia stanza.

Insensibile, sì, ma per mia natura o solo per confermare un'etichetta assegnatami? Insensibile per mandato. Con un corpo da temere e zittire e domare come un animale feroce. Con standard irraggiungibili a cui tendere, che richiedevano - anche solo per provare ad avvicinarvisi - l'eradicazione di ogni vulnerabilità, ogni dubbio, ogni possibilità di errore, ogni umanità. Una vita a reprimersi e vergognarsi e nascondersi e svalutarsi, a guardare le cose belle con il sospetto di chi non si crede alla loro altezza. A pensare che la mia felicità dovesse essere subalterna, se rompeva patti ai quali mi era stata imposta la fedeltà, se arrivava prima di date fissate con non si sa quale criterio. O a non vederla nemmeno, la possibilità della felicità, perché - sapendo che non era ancora il tempo stabilito - mi negavo inconsciamente perfino la facoltà di percepire sensazioni e turbamenti. E intanto vedere il perdono per gli altri, la comprensione, addirittura la giustificazione delle loro deviazioni da norme che per me, invece, erano ferree e insindacabili come dogmi. Cogliere la crudeltà e l'insensatezza di tutto questo e comunque riuscire a sentirsi in colpa anche solo di aver ricevuto una telefonata, portando nel cuore il cimitero di tutte le cose lasciate morire, sacrificate su un altare che non era mio, per compiacere qualcuno che non ero io. Sopportando in silenzio, senza ribellarsi mai, perché questo mi era stato insegnato: che il sacrificio e il dolore per una donna sono la condizione esistenziale.

Listening to:
The Mercy Seat - Nick Cave & The Bad Seeds

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sabato, luglio 18, 2020

Approvazione

What drink’st thou oft, instead of homage sweet,
But poisoned flattery?


Nel culto di chi o di cosa viviamo? Di chi sono gli dei che seguiamo? Abbiamo davvero scelto noi l'altare sul quale sacrificare tempo e fatiche? Come abbiamo deciso a cosa consacrare la nostra vita? Per compiacere chi? Per noi stessi o un'autorità esterna che ogni tanto ci dispensa qualche zuccherino e così ci tiene in suo potere? Siamo davvero autonomi o siamo inconsciamente eterodiretti da desideri che non ci appartengono?

Ap-pro-va-zio-ne. Cinque sillabe da cui mi sto curando e, mentre sono alle prese con la mia terapia, i miei "colleghi" malati li vedo dappertutto, come non mi era mai capitato di notare. Se c'è davvero una pandemia, è questa ricerca spasmodica dell'apprezzamento, quasi che avesse valore solo ciò che riceve il plauso di qualcun altro. Quella voglia di essere guardati, notati, lodati per curare ferite antiche. Ma trovare lo sguardo così ardentemente bramato e mai davvero catturato è impossibile. Neanche milioni di milioni di altri occhi potranno colmare quel desiderio. Mentre quelli, quelli non ci guarderanno mai come avremmo voluto, e comunque sarebbe troppo tardi. Con le cose buone è sempre una questione di tempismo: in ritardo o in anticipo non servono a niente. 

L'unica cura possibile è una rivoluzione, un'inversione a U in direzione di se stessi perché lo sguardo che brilla sia il proprio, perché sia il nostro il viso su cui si allarga un sorriso orgoglioso e niente possa fare vacillare una soddisfazione intima, viscerale cercata e costruita con in mente solo le proprie passioni, i propri desideri, la parte autentica di sé.

Listening to:
Like a Friend - Pulp

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