venerdì, novembre 30, 2007

Sembianze

Cercare il vento dove non c'è è un impresa degna di un vero eroe. Sarebbe bello se qualcuno mi assegnasse questa missione. Intraprenderei la mia personalissima queste con entusiasmo da far impallidire Perceval.
Quest'aria sempre ferma sembra incredibilmente più spessa. Nel freddo delle mattine nebbiose e umide percorrere Piazza Vittorio è come passare attraverso una serie di pareti di cartongesso e alla fine, quando da ultimo si conquista il riparo del chiuso, le ossa dolgono e la pelle è livida. Ma forse è solo l'insulto del grigiore che mi storpia. Ed è la maledizione di quest'acqua in sospensione, che non piove, ma che aleggia in banchi fino a quando la mattina matura. Peccato non si tratti di una maturazione fisiologica, bensì di una industriale, cosicché le mattine anche se appaiono d'un giallo brillante, in realtà sono troppo sode ed aspre.

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Fuga all'inglese - Paolo Conte

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giovedì, novembre 29, 2007

Spazi angusti

Le cose che non lasciano neppure qualche misera scoria negli angoli non sono mai davvero state; impalpabili nuvole di fumo travestite da mastodonti, passano senza scavare solchi. E non compromettono e non corrompono. Non esaltano e non atterrano. Non sono, e la loro non esistenza non è di quelle che urlano e danno scandalo. Non turbano il sonno, né suscitano domande, non fanno indignare, né titillano la nostalgia. Lasciano solo un po' più di vuoto, un po' più di spazio. Eppure, inspiegabilmente, si ha la sensazione di stare più scomodi.

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Love and Mathematics - Broken Social Scene

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martedì, novembre 27, 2007

Discontinuità

Wittgenstein accumulava segni d'interpunzione perché rivendicava il diritto ad essere letto lentamente. Io accumulo segni d'interpunzione perché non sono capace di pensare altro che il frammento. L'istante è l'unica dimensione che conosco. La storia mi sembra un mosaico di tessere difformi. Credo poco nei nessi causali, molto nella casualità. La logica del mondo è disarmonica e disomogenea.

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Everything you can think - Tom Waits

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lunedì, novembre 26, 2007

Gli angeli ci invidiano


L'inizio della conferenza è previsto per le 11.00, ma arrivo per tempo avendo preventivato una grande affluenza. Non mi sbaglio: alle 10.40 l'Aula Magna del Rettorato è già piena e c'è ancora una lunga fila di persone che attendono di entrare. L'ospite d'onore è un nome di grandissimo richiamo e l'organizzazione non si è risparmiata: c'è una troupe pronta a riprendere il tutto e proiettarlo sugli schermi disposti nella sala, affinché anche noi poveri reietti delle ultime file possiamo vedere bene; e ci sono cuffie in abbondanza, perché tutti possano usufruire della traduzione simultanea. Io faccio a meno delle cuffie, mi hanno assicurato che il regista parlerà in inglese e incrocio le dita sperando abbiano ragione. Alle 10.55 l'Aula Magna è già stracolma. Non c'è più neppure una sedia. Ci sono molti giovani. Le tipiche facce da DAMS o da Scienze della Comunicazione. E c'è qualche professore, ma non sono in molti. Noto con piacere che l'età media della platea è decisamente al di sotto dei quarant'anni.
Alle 11 in punto fa il suo ingresso discreto il Preside della Facoltà di Lingue - Prof. Paolo Bertinetti - in abito e cappotto blue. Sfoggia il suo impeccabile aplomb d'ordinanza. Quest'anno è riuscito a fare il colpaccio: un servizio sui TG è garantito. Il suo volto sempre composto e dai lineamenti molto classici, quasi d'antan, lascia trasparire una giusta soddisfazione. La risonanza di un evento del genere è superiore a quella di mille spot pubblicitari. L'attesa continua ancora per qualche minuto. La sala straripa. Ci sono professori seduti sui gradini e molti ragazzi sono rimasti in piedi, appoggiati alle pareti.
Alle 11.15 entra Wim Wenders. Ha i capelli grigi, legati in una folta coda, un paio di occhialini con la montatura nera e camicia e giacca beige. Si accomoda al tavolo. E' un uomo imponente, dall'aria bonaria e composta; sembra affabile, per nulla pieno di sé. Ascolta la traduzione simultanea, sorride, prende appunti su un blocco di carta.
I professori chiamati ad intervenire lo incensano, come di prammatica, e gli pongono domande scontate non senza prima aver fatto abbondante sfoggio di cultura e autoreferenzialità. Vengono citati Baudrillard, Kundera, Bazin e tutti in modo quantomeno poco pertinente. E' la prassi delle conferenze. Credo lo facciano per un complesso di inferiorità nei confronti dell'ospite: vogliono dimostrare di non essere da meno e provano a seppellirlo con le citazioni. Wenders risponde alle domande che gli vengono poste in maniera tranquilla, ma non si perde in giri di parole. Si evince chiaramente che non è un logorroico ed ho il sospetto che non ami particolarmente parlare di sé e del suo lavoro. Le risposte che dà non sono memorabili, così come le domande che gli fanno. Parla, nell'ordine: di come sia cambiato il lavoro del regista negli ultimi anni, dei critici, di cosa si dovrebbe insegnare agli aspiranti registi, di identità della Germania, di cosa rappresenta oggi per lui il concetto di "patria", del viaggio come utopia, di Berlino, della ricerca della verità che è opposta alla bellezza, di montaggio.
Poi finalmente il lampo: gli chiedono di parlare degli angeli de "Il cielo sopra Berlino" e finalmente il discorso si fa accattivante. E arriva a fare delle affermazioni sorprendenti. Dice perfino di credere davvero negli angeli e restiamo tutti abbastanza spiazzati.


Tutto sommato è stata una mattinata piacevole. Posso dire di essere stata per due ore sotto lo stesso tetto con uno dei più grandi registi viventi.


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The ground beneath her feet - U2

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sabato, novembre 24, 2007

Deliri umidi

Piove senza sosta. Da giorni. Torino sembra iniziare a rammollirsi da quanto è annacquata e se continua così finirà per sfaldarsi a poco a poco. Un pezzo alla volta. Che meravigliosa fine sarebbe per questa città spocchiosa e provinciale. Non una solenne esplosione, né un maestoso incendio, e neppure l'imponente violenza di un terremoto: solo un lento disfarsi, un incessante trasformarsi in poltiglia sudicia. E alla fine di Palazzo Madama e Mirafiori, di Via Po e del Valentino, della collina e di Piazza San Carlo resterebbe solo un cumulo di pappetta fuligginosa e ammuffita.

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Sotterraneo - Bluvertigo

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giovedì, novembre 22, 2007

A posto

Ogni tanto a quest'ora metto in ordine le cose sparse per la camera: i vestiti buttati sulla spalliera della sedia che stratificandosi diventano una sorta di imbottitura posticcia; i cumuli di fogli e scontrini, bottiglie d'acqua ormai vuote, monete isolate, penne e matite e tutte le altre cose distrattamente appoggiate sulla scrivania; le sciarpe ammonticchiate sull'appendiabiti; le scarpe spinte per pigrizia sotto al letto; i libri che iniziano a torreggiare sul comodino. Cerco di mettere ordine per scongiurare ed esorcizzare quel senso di precarietà che ha preso possesso della mia vita. Provo a mascherare il tutto con una patina di normalità. Non è che senta il bisogno di percepire un legame con questi luoghi, ma alla lunga è affossante avere l'impressione di essere turisti della propria esistenza e ci si rassegna a predisporre dei riti, delle piccole scadenze quotidiane, che punteggino di sicurezze le proprie giornate. Così alla sera quando non sono troppo stanca metto in ordine, quindi mi siedo sul letto e mi godo la prospettiva della stanza sistemata alla perfezione, con i libri allineati sullo scaffale, la sedia denudata dalla sovrapposizione di abiti, la scrivania sgombra. Poi mi addormento e sogno di essere da un'altra parte.

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Ramshackle - Beck

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martedì, novembre 20, 2007

Ci vorrebbe...

In sere come questa bisognerebbe avere qualcuno con cui parlare piano prima di addormentarsi. Sussurrare frasi nel buio della stanza. E ci vorrebbe una stanza meno impersonale, qualcosa che parli di noi e non quattro pareti spoglie prese in affitto. Spenta l'abatjour, ci vorrebbero due braccia salde e una voce confortante per accompagnarci senza timori nel cuore della notte e propiziare sogni piacevoli. Non un misero plaid, che non fa sentire freddo ma non scalda. E se proprio non si potesse avere tutto ciò, ci vorrebbe almeno qualcuno a cui dedicare il proprio ultimo pensiero, quello che rimane sempre a metà perché ci si addormenta prima di finirlo. Qualcuno che valga la pena di sognare e che, magari, ogni tanto a sua volta ci sogni.

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Via Del Campo - Fabrizio De Andrè

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lunedì, novembre 19, 2007

Noia

"When the evening is spread out against the sky
Like a patient etherized upon a table"
(T.S. Eliot, The Love Song of J. Alfred Prufrock, vv.2-3)

La finestra è socchiusa: un invito al freddo della sera a fare il suo ingresso discreto nella stanza, che è troppo calda, troppo umana per non risultare fastidiosa. Le stelle sono oscurate dai bagliori della città e chi voglia esprimere un desiderio non può far altro che rivolgersi ai fari, ai lampioni e alle finestre illuminate, che punteggiano di giallo l'orizzonte scuro. E, forse per la scarsa maestà degli interlocutori, ciò che viene fuori è una richiesta bizzarra: ogni sera dimenticare qualunque cosa, a partire dal proprio nome. Sarebbe l'optimum. Ci si sveglierebbe leggeri e innocenti. Senza passato e, tutto sommato, senza futuro. Solo un fuggevole oggi da vivere ogni giorno con l'entusiasmo del debuttante.

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Weddings - Broken Social Scene

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domenica, novembre 18, 2007

Afasica

Difficile scrivere di qualcosa che non riesco a capire, né a definire. Il rischio in agguato è quello di drammatizzare o minimizzare e in entrambi i casi non centrerei il bersaglio. E' un'urgenza. Ecco, l'ho detto. Ma non so bene di cosa.

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Pelle - Afterhours

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venerdì, novembre 16, 2007

Lapidaria

L'inquietudine è sentire di avere un secchio pieno d'argilla e non sapere come modellarla.

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Ageless beauty - Stars

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mercoledì, novembre 14, 2007

E se avevamo qualche spicciolo in più compravamo un Tango

Quand'ero piccola giocavo a calcio in cortile. A quei tempi nel mio palazzo c'erano solo cinque bambini: io, mio fratello Vincenzo, Franco e Milena (anche loro fratelli, abitavano all'ultimo piano), più mio fratello Giuseppe che allora era poco più che un lattante e, ovviamente, non poteva essere dei nostri. Era l'inizio degli anni Novanta. Tra il più piccolo e il più grande di noi c'erano tre anni di differenza. Trascorrevamo insieme ogni momento libero. Inseparabili. Dominavamo spensierati e chiassosi quell'anomalo pezzo di centro: un quadrato con scavi per fondamenta e pilastri che venivano issati giorno dopo giorno e in breve sarebbero diventati gli sghembi edifici del complesso "Diamante" e avrebbero precluso qualunque panorama. Una specie di enclave, che somigliava a una periferia postmoderna, ma era al massimo ad un paio di isolati da qualunque punto "chiave" della città.
Si giocava per pomeriggi interi, fino al tramonto, fino a che una mamma non si affacciava al balcone intimandoci di tornare a casa, e allora strappavamo altri cinque minuti di gioco rassicurando che «sì, sì, stiamo salendo!», presente progressivo, come se fossimo stati già su per le scale a rotta di collo e invece continuavamo un altro po' prima di raccattare finalmente il pallone.
In quattro si potevano fare solo partitelle di due contro due, nel cortile-parcheggio, tra le macchine, senza falli laterali. O si giocava a tirare i rigori, ispirandosi per metà a
Holly e Benji, per metà agli eroi in carne e ossa del momento. A Roberto Baggio. A Totò Schillaci. La composizione delle squadre variava di volta in volta, a seconda di ciò che dettava l'umore. A volte erano miste, spesso una coppia di fratelli contro l'altra; altre si giocava maschi contro femmine, se i maschi volevano vincere facile e fare un po' i bulli. Io e mio fratello quando giocavamo insieme eravamo sconfitti abituali: non abbiamo mai avuto i piedi buoni, con sommo scorno di nostro padre, che come ogni padre italiano, anche se non faceva pressioni e non lo diceva, sotto sotto s'intuiva che avrebbe voluto un figlio di cui poter vantare le doti calcistiche. Milena e Franco, al contrario, se la cavavano bene. Più Milena di Franco, in realtà. Il fratello riusciva a superarla solo per la maggior prestanza fisica, ma i piedini di bimba di lei erano abili e sensibili e se non la si affrontava in maniera aggressiva, spesso ai limiti del lecito, ti scartava senza difficoltà e s'involava velocemente verso l'area. Quella zona dal confine labile che identificavamo come tale.
Ammetto che a volte, invece che giocare a calcio, mi sarebbe piaciuto giocare a campana, ma i maschi erano più grandi ed erano maschi e i maschi - si sa - non giocano a campana. Così si giocava a calcio. Io, che non ero brava come Milena, mi trovavo sempre un po' in difficoltà. In attacco non andavo bene: non sapevo avanzare palla al piede e finivo per spararla lontano, colpendola a casaccio e attirandomi le ire del mio sodale di turno. Men che meno ero adatta a stare in porta: non sono un gatto, ho i riflessi sonnolenti. Così, la cosa che mi veniva meglio era fare il lavoro umile e ingrato del difensore. E io, rassegnata e operosa, mi ci incaponivo e di tanto in tanto riuscivo perfino a strapparlo qualche pallone. Non avevo paura dei gomiti alti, che a volte ti sfioravano il naso, e non temevo il contatto con l'asfalto. Accettavo la mia condizione di operaia del campetto da calcio: non avrei mai segnato, nessuno mi avrebbe mai lodata per un gesto tecnico, ma se avessimo subito un gol avrei dovuto incassare gli insulti e le espressioni contrariate. Non era bello, ma era il prezzo da pagare se volevo giocare. Tanto, l'insulto di oggi domani sarebbe stato dimenticato. Alla sera lo si lavava via dalla faccia insieme alla polvere grigia.

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Canzone delle domande consuete - Francesco Guccini

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martedì, novembre 13, 2007

Walking the line

Ogni volta si apre una porta e dietro ad essa ve n'è un'altra in agguato, come in un gioco di scatole cinesi. Come matriosche, ogni domanda prevede una risposta che è l'incipit di una nuova domanda. La vita è un dettato incomprensibile che si prova a scrivere con una penna spuntata, capendone solo una frase ogni tanto e provando a farsela bastare. Essere padroni della propria esistenza è un'ingenua illusione che qualche coraggioso prova a forzare fino a farla coincidere con la verità. E' questione di varcare una soglia, di passare un confine. Ma non è da tutti.

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Tuareg - Gianmaria Testa

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domenica, novembre 11, 2007

Ripartire

Il primo vero sole di novembre si è affacciato a salutarmi. Riparto tra poche ore. Ho preso una boccata d'ossigeno: speriamo che mi garantisca un'autonomia di poco più di mese, fino a Natale.
Sento nell'aria buoni auspici.

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The entertainer - George Shearing

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venerdì, novembre 09, 2007

Nuovi progetti

Si può vivere una vita frivola? Sicuramente sì, lo fa la maggior parte della gente. Ma è morale farlo? E' accettabile sedere in poltrona al caldo incuranti che fuori infuri il temporale? E' perdonabile la distrazione quotidiana, o peggio l'indifferenza, nei confronti di ciò che è attorno a noi? Quanto a lungo possiamo dire di non sapere? Ci fa onore essere spettatori sordo-ciechi del nostro ambiente? Usare l'impotenza come alibi? E chi ci assolverà per aver scelto la facile via dell'esilio piuttosto che restare e provare a resistere?

Negli ultimi anni c'è stata come una patina biancastra sui miei occhi, che mi impediva di vedere tutti i dettagli. Ho galleggiato sulla superficie delle cose, non mi sono concessa la rabbia e l'indignazione, indulgendo invece al disincanto ed alla rassegnazione. E per sentirmi in pace con la coscienza ho creduto che bastasse informarmi attraverso i canali ufficiali, seguire le vicende di una politica sempre più spettacolarizzata che va nei salotti buoni della TV a rappresentare se stessa tra una soubrette svestita e uno psicologo d'accatto. Dall'alto di ciò ho spesso avuto la pretesa di essere migliore di altri, perché mi interessavo e non lasciavo che tutto mi scivolasse addosso come se non mi riguardasse. Adesso mi rendo conto che tutto questo era un imbarazzante tentativo di mettere la testa sotto la sabbia, accontentandomi di vedere quello che mi autorizzavano a vedere e di dire quello che era di prammatica dire. Avevo scelto, tra le tante a disposizione, la mia identità predefinita: di sinistra, di buon livello culturale, mentalmente aperta, tollerante, progressista e d'ambiente borghese; accettando l'omologazione e i diktat di pensiero associati alla mia "classe" di appartenenza, che ha l'ambizione di una vita agiata e tranquilla coniugata con il vezzo della difesa di simulacri vuoti di antichi ideali politici piegati di volta in volta alle necessità contingenti. Ma tutto questo è meschino.


Io so poco, e non ho prove (parafrasando Roberto Saviano), ma oggi scelgo di raccontare quel poco che so, perché è necessario che lo faccia. Non lo farò qui, però, perché questo blog è troppo personale per ospitare contenuti del genere, che si svilirebbero in un tale contesto. Ho dunque ridato vita ad un progetto dell'anno scorso: il blog collettivo
"Pensieri Pesanti", al quale vi invito a partecipare attivamente come autori.
"FESTINA LENTE" resterà e continuerò ad aggiornarlo, ma voglio anche portare avanti questo nuovo progetto parallelo. Perché quando la coscienza scalpita non la si può sempre sedare per farla smettere.

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Il silenzio dei colpevoli - Caparezza

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martedì, novembre 06, 2007

Buon viaggio

Potrei scrivere in terza persona, sarebbe di certo più "professionale", ma qui non si tratta di professionalità: il motivo che mi spinge a scrivere di te e per te è l'affetto. Un affetto spontaneo che ho provato dalla prima volta in cui ho visto una tua trasmissione con un minimo di consapevolezza. Era il 1995, avevo dodici anni e c'era un nuovo programma nel quale un ometto canuto ogni sera dopo il Tg1 raccontava di fatti e persone in maniera sobria ed asciutta, ma senza tralasciare l'ironia e perfino il sarcasmo alle volte. Lo studio era spoglio, ridotto all'essenziale: solo una scrivania ed una sedia, nessun altro fronzolo. Quell'uomo bianco ed occhialuto eri tu, caro Enzo. Credo di non aver mai perso una puntata de "Il Fatto" e mentre quasi tutti i miei coetanei guardavano "Striscia la Notizia", io me ne stavo davanti al teleschermo ad ascoltarti in religioso silenzio, fidandomi di tutto quello che dicevi.
Mi sei piaciuto sempre così tanto che scherzando (neanche troppo, in verità) ho più volte detto che eri il mio uomo ideale: pacato, intelligente, curioso, pungente al momento opportuno, coraggioso, cortese, onesto. Non nego che se oggi incontrassi un ragazzo con le tue qualità potrei perdonargli la bruttezza e innamorarmene perdutamente. Ti ho ammirato e voluto bene come si vuol bene ad un nonno. Tu eri il mio nonno mediatico, un nonno mai incontrato eppure così presente, un nonno che mi spiegava l'Italia e il mondo e mi raccontava i suoi personaggi, un nonno fiero di essere stato partigiano e orgoglioso di essere testimone e narratore del suo tempo, un nonno schietto e per nulla snob che non si compiaceva di risultare oscuro alla casalinga o al pensionato con la licenza elementare. E sei stato un esempio di libertà, perché non hai mai avuto - come amavi dire tu - nessun padrone all'infuori dei lettori o dei telespettatori, perché ti piaceva la TV di Stato e non quella governativa, perché non sei mai stato servo della politica e hai reso un servizio importantissimo agli italiani, ai quali hai raccontato per più di mezzo secolo piccoli fatti e piccole storie che hanno fatto la Storia.
Oggi mi sarebbe piaciuto essere a Milano ed incontrarti, (anche se in questa circostanza piuttosto infelice), e magari sussurrarti un grazie perché nell'adulta che sono diventata c'è anche del tuo. Ho sempre pensato che sia fondamentale ascoltare gli anziani per cercare di carpirne la saggezza e conquistare una visione prospettica delle cose che noi giovani, infinitamente meno esperti, non possiamo avere, e a tale scopo i soggetti ai quali mi sono rivolta sono stati i miei nonni. Purtroppo, uno di essi non l'ho mai conosciuto, ma devo dire che tu sei stato un supplente davvero eccellente.
Ti voglio bene.

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lunedì, novembre 05, 2007

Congetture e temporali

Ho trovato giorni di pioggia e pochi spiragli di sereno. Un sole indeciso che non sa se concedersi o no e prima si offre per poi mostrarsi ritroso. E un tepore dolce e narcotico, che si impiastra sulle palpebre e imbeve il midollo e innesca procedimenti maieutici nell'inconscio. Scandaglia in profondità e riesuma sensazioni e ricordi così lungamente occultati che quasi non li si riconosce come propri, ma che adesso sono lì in superficie a far bella mostra di sé ed è impossibile ignorarli, trascurarne la portata. Si innescano confusioni e dubbi a catena e domande che ci si rifiuta di porsi seriamente per pigrizia o timore delle possibili risposte. In questa terra che solletica e sollecita l'irrazionalità, ogni risoluzione dettata dalla ragione sembra dover essere inevitabilmente messa in discussione e finanche distrutta senza curarsi dei pericolosi risvolti che ciò può comportare. Arzigogolare è l'unico mandato che assegnano questo cielo che è più azzurro e questa luce che è più luminosa e questa brezza sottile e quest'aria di mare...

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The trees were mistaken - Andrew Bird

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venerdì, novembre 02, 2007

In un nuovo tempo di discorsi sulla razza

Mio padre dice che sono troppo polemica. Vedo e rilancio: sono anche troppo irritabile e mi accaloro eccessivamente. Il problema è che certe cose non si possono proprio sentire, né vedere ed io - forse per un infantile idealismo - mi sento di dover fare un po' l'avvocato del diavolo. Premetto che mi spiace per la signora Giovanna Reggiani e che, se verrà accertato che davvero è stato Nicolae Mailat ad aggredirla e gettarla giù nella scarpata, questi dovrà scontare una pena esemplare per il reato commesso. Tuttavia, non posso sopportare le tirate contro gli immigrati rumeni nelle quali si fa di tutta l'erba un fascio. Non esiste un popolo intrinsecamente criminale, è una solenne boiata anche solo pensarlo, e mi stupisco che ancor oggi, alla fine del 2007, ci sia qualcuno pronto ad affermare a gran voce una cosa del genere. Non si è molto distanti da Hitler se si hanno tali convinzioni. A quando un bel genocidio per dare una ripulita al mondo e stare tutti un po' più tranquilli?
Invece di dire imbecillità faremmo meglio a chiederci se il fatto che molti immigrati vivano di espedienti e spesso si dedichino ad attività illecite non derivi in gran parte dalle condizioni subumane nelle quali sono costretti a sopravvivere. Qualcuno di voi ieri ha visto durante i servizi televisivi quella sottospecie di baracche nelle quali abitano? Io sì e non ho potuto fare a meno di pormi alcune domande. Com'è che abbiamo tanta pietà per i cani randagi o abbandonati ed abbiamo smesso di provarla per gli esseri umani? Perché siamo indulgenti con un ricco che commette reati finanziari per appagare la propria voglia di superfluo e non abbiamo neppure un briciolo di misericordia per chi tenta di pulirici il vetro al semaforo e si arrabatta per procacciarsi un pasto? Perché ci infastidiamo per la presenza di spacciatori e prostitute e non ci chiediamo chi sono i loro clienti? E potrei andare avanti a lungo...
La miseria può annebbiare e rendere privi di valori, perfino feroci. Questo non significa che le colpe, quando accertate, debbano essere rimesse: la legge è per tutti. Ma forse sarebbe opportuno fare un po' di prevenzione, invece che piangere sempre sul latte versato e ricorrere alla violenza ed alle espulsioni.

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Maybe you've been brainwashed too - New Radicals

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