Uno dei primi postulati che ci vengono insegnati quando studiamo la geometria è che le rette parallele non si incontrano. Fino a quando non ci si imbatte nella geometria non euclidea, questo concetto resta inciso nel nostro cervello come una certezza assoluta: ci sono cose che non sono destinate a confluire in nessun caso, un po' come i binari di un treno. Crescendo ci spiegano che quello che ci hanno insegnato non è del tutto vero, che c'è uno spazio, lo spazio proiettivo, nel quale invece sì, le rette parallele si incontrano, solo che le coordinate del punto in cui confluiscono non possono essere determinate; si dice che è un punto all'infinito.
Ho sempre avuto difficoltà ad accettare la geometria iperbolica, a capirla fino in fondo, perché l'infinito è un concetto talmente vago e inafferrabile che ho sempre dubitato dell'esistenza di questo fantomatico punto, pensando che in fin dei conti fosse solo una comoda convenzione per modellizzare lo spazio così come appare all'occhio umano. E, in effetti, in geometria è esattamente così: il punto all'infinito non esiste se non ipoteticamente.
Anche nella mia vita ci sono state tante cose che viaggiavano su rette parallele e sembravano confermare perfettamente il postulato euclideo, cose che ero certa fossero destinate a non convergere mai, a conservare sempre la stessa distanza lungo il percorso in solitaria a cui erano inevitabilmente condannate; negli ultimi cinque mesi mi sono dovuta ricredere, perché ho scoperto che per me c'è davvero un punto in cui affluiscono le cose che non era nemmeno logico sperare che si incontrassero. Adesso so che il punto all'infinito esiste, inequivocabilmente. Io l'ho tenuto per mano, mi ha tenuta per mano, e lo spazio improvvisamente ha acquistato un senso del tutto nuovo e una nuova prospettiva.
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O último romântico - Caetano Veloso
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