Quand'ero piccola giocavo a calcio in cortile. A quei tempi nel mio palazzo c'erano solo cinque bambini: io, mio fratello Vincenzo, Franco e Milena (anche loro fratelli, abitavano all'ultimo piano), più mio fratello Giuseppe che allora era poco più che un lattante e, ovviamente, non poteva essere dei nostri. Era l'inizio degli anni Novanta. Tra il più piccolo e il più grande di noi c'erano tre anni di differenza. Trascorrevamo insieme ogni momento libero. Inseparabili. Dominavamo spensierati e chiassosi quell'anomalo pezzo di centro: un quadrato con scavi per fondamenta e pilastri che venivano issati giorno dopo giorno e in breve sarebbero diventati gli sghembi edifici del complesso "Diamante" e avrebbero precluso qualunque panorama. Una specie di enclave, che somigliava a una periferia postmoderna, ma era al massimo ad un paio di isolati da qualunque punto "chiave" della città.
Si giocava per pomeriggi interi, fino al tramonto, fino a che una mamma non si affacciava al balcone intimandoci di tornare a casa, e allora strappavamo altri cinque minuti di gioco rassicurando che «sì, sì, stiamo salendo!», presente progressivo, come se fossimo stati già su per le scale a rotta di collo e invece continuavamo un altro po' prima di raccattare finalmente il pallone.
In quattro si potevano fare solo partitelle di due contro due, nel cortile-parcheggio, tra le macchine, senza falli laterali. O si giocava a tirare i rigori, ispirandosi per metà a Holly e Benji, per metà agli eroi in carne e ossa del momento. A Roberto Baggio. A Totò Schillaci. La composizione delle squadre variava di volta in volta, a seconda di ciò che dettava l'umore. A volte erano miste, spesso una coppia di fratelli contro l'altra; altre si giocava maschi contro femmine, se i maschi volevano vincere facile e fare un po' i bulli. Io e mio fratello quando giocavamo insieme eravamo sconfitti abituali: non abbiamo mai avuto i piedi buoni, con sommo scorno di nostro padre, che come ogni padre italiano, anche se non faceva pressioni e non lo diceva, sotto sotto s'intuiva che avrebbe voluto un figlio di cui poter vantare le doti calcistiche. Milena e Franco, al contrario, se la cavavano bene. Più Milena di Franco, in realtà. Il fratello riusciva a superarla solo per la maggior prestanza fisica, ma i piedini di bimba di lei erano abili e sensibili e se non la si affrontava in maniera aggressiva, spesso ai limiti del lecito, ti scartava senza difficoltà e s'involava velocemente verso l'area. Quella zona dal confine labile che identificavamo come tale.
Ammetto che a volte, invece che giocare a calcio, mi sarebbe piaciuto giocare a campana, ma i maschi erano più grandi ed erano maschi e i maschi - si sa - non giocano a campana. Così si giocava a calcio. Io, che non ero brava come Milena, mi trovavo sempre un po' in difficoltà. In attacco non andavo bene: non sapevo avanzare palla al piede e finivo per spararla lontano, colpendola a casaccio e attirandomi le ire del mio sodale di turno. Men che meno ero adatta a stare in porta: non sono un gatto, ho i riflessi sonnolenti. Così, la cosa che mi veniva meglio era fare il lavoro umile e ingrato del difensore. E io, rassegnata e operosa, mi ci incaponivo e di tanto in tanto riuscivo perfino a strapparlo qualche pallone. Non avevo paura dei gomiti alti, che a volte ti sfioravano il naso, e non temevo il contatto con l'asfalto. Accettavo la mia condizione di operaia del campetto da calcio: non avrei mai segnato, nessuno mi avrebbe mai lodata per un gesto tecnico, ma se avessimo subito un gol avrei dovuto incassare gli insulti e le espressioni contrariate. Non era bello, ma era il prezzo da pagare se volevo giocare. Tanto, l'insulto di oggi domani sarebbe stato dimenticato. Alla sera lo si lavava via dalla faccia insieme alla polvere grigia.
Listening to:
Canzone delle domande consuete - Francesco Guccini
Etichette: Calcio, Infanzia, Personale, Ricordi, Riflessioni